Solidarietà a Vince
Lo scorso 8 agosto, dopo una latitanza durata oltre 7 anni, è stato arrestato in Francia il compagno anarchico Vincenzo Vecchi. In seguito alla condanna a 11 anni e mezzo per “devastazione e saccheggio” per i fatti del G8 di Genova, Vince era infatti diventato irreperibile per lo Stato.
Una scelta ardua e coraggiosa, coerente con ciò che lui stesso dichiarò nell’aula di tribunale prima della sentenza: “…in quanto anarchico, ritengo i concetti borghesi di colpevolezza o innocenza totalmente privi di significato”. Quindi, una volta condannato definitivamente, ha deciso di partire, di non farsi acciuffare dai tanti apparati polizieschi che lo Stato gli ha sguinzagliato dietro.
Anni di clandestinità non devono essere stati facili, ma il modo in cui Vince ha affrontato la pena che lo Stato gli ha inflitto ci ha fatto sentire realmente complici con lui per la sua scelta.
Purtroppo il lavoro di Digos, Ucigos e tante altre merde ha portato alla sua cattura ed ora è prigioniero nel carcere di Rennes, in attesa della richiesta di estradizione in Italia dove dovrebbe scontare la condanna per la rivolta di Genova.
Spesso sentiamo scandire nei cortei “il nostro amore per la libertà è più forte di ogni autorità” ed è proprio questo amore che deve aver spinto alla scelta della latitanza. L’idea che ora il nostro compagno sia rinchiuso fra le quattro mura di un carcere ci colpisce al cuore, ma non ci abbatte; getta anzi benzina sul fuoco della lotta contro questo sistema.
Durante questi sette anni la forza della scelta radicale fatta da Vince ha dato alle lotte è stata fondamentale per alcuni e il fatto che lo Stato abbia faticato così tanto per riuscire a mettergli le catene rafforza l’immagine di un potere non sempre invincibile. La rabbia che percorre le nostre vene è tanta, ma questa rabbia non potrà che scatenarsi contro il potere e i suoi apparati, con sempre più vigore.
Quelle di Genova sono state giornate di lotta, di guerra al capitalismo, di rivolta contro l’esistente. Non possiamo quindi che riportare le parole dette da Vince nelle aule di tribunale: “Mi sono sempre assunto la piena responsabilità e le eventuali conseguenze delle mie azioni, compresa la mia presenza nella giornata di mobilitazione contro il G8 del 20 luglio 2001, anzi sono onorato di aver partecipato da uomo libero ad un’azione radicale collettiva, senza nessuna struttura egemone al di sopra di me.”
Vogliamo esprimere massima solidarietà a Vince, con la voglia di rivederlo al più presto al nostro fianco nella lotta per l’abbattimento di questo sistema.
Vince libero! Juan libero!
Morte allo Stato! Per l’anarchia!
Centro di documentazione anarchico “L’arrotino” di Lecco
VINCE LIBERO!
Ci teniamo, dopo il suo arresto avvenuto pochi giorni fa, a riportare la dichiarazione letta in aula da Vince durante il processo per i fatti di Genova 2001.
DEVASTATORE E SACCHEGGIATORE È LO STATO
Innanzitutto vorrei fare una breve premessa: in quanto anarchico, ritengo i concetti borghesi di colpevolezza o innocenza totalmente privi di significato. La decisione di voler dibattere in un processo di “azioni criminose” che si vogliono imputare a me e ad altre persone, e soprattutto l’esprimere qui le idee che caratterizzano il mio modo di essere e di percepire le cose, potrebbe essere oggetto di valutazioni sbagliate: è necessario quindi precisare da parte mia che lo spirito con cui rilascio questa dichiarazione, dopo anni di spettacolarizzazione mediatica dei fatti di cui si dibatte qui dentro, è quello in cui anche la voce di qualche imputato si faccia sentire. Con questo breve intervento comunque non cerco né scappatoie né giustificazioni: per me sarebbe assurdo anche il fatto che la corte decida che sia legittimo rivoltarsi non spetta ad essa. Rileggere dei fatti accaduti sotto una certa ottica, con un certo tipo di linguaggio (quelli della burocrazia dei tribunali per intenderci) non equivale solo a considerarli parzialmente, ma significa distorcerne la portata, la loro collocazione storica, sociale e politica, significa stravolgerli completamente da tutto il contesto in cui si sono verificati Quello che mi si contesta in questo processo, il reato di devastazione e saccheggio, implica secondo il linguaggio del codice penale che “una pluralità di persone si impossessa indiscriminatamente di una quantità considerevole di oggetti per portare la devastazione”: per questo tipo di reati si chiedono condanne molto alte, e questo nonostante non si tratti di azioni particolarmente odiose o crimini efferati. Mi sono sempre assunto la piena responsabilità e le eventuali conseguenze delle mie azioni, compresa la mia presenza nella giornata di mobilitazione contro il g8 del 20 luglio 2001, anzi sono onorato di aver partecipato da uomo libero ad un’azione radicale collettiva, senza nessuna struttura egemone al di sopra di me. E non ero solo, con me c’erano centinaia di migliaia di persone, ognuno che con i propri poveri mezzi, si è adoperato per opporsi a un ordinamento mondiale basato sull’ economia capitalista, che oggi si definisce neoliberista…la famigerata globalizzazione economica, che si erge sulla fame di miliardi di persone, avvelena il pianeta, spinge le masse all’ esilio per poi deportarle ed incarcerarle, inventa guerre, massacra intere popolazioni: questo è ciò che definisco devastazione e saccheggio. Con quell’enorme esperimento a cielo aperto fatto su Genova (nei mesi precedenti e nelle giornate in cui si tenne quella kermesse di devastatori e saccheggiatori di livello planetario) che qualche ritardatario si ostina ancora a chiamare gestione della piazza, è stato posto uno spartiacque temporale: da Genova in poi niente più sarebbe stato come prima, né nelle piazze né tanto meno nei processi a seguito di eventuali disordini. Si apre la strada con sentenze di questo tipo ad un modus operandi che diventerà prassi naturale in casi simili, cioè colpire nel mucchio dei manifestanti per intimorire chiunque si azzardi a partecipare cortei, marce, dimostrazioni… non credo sia fuori luogo parlare di misure preventive di terrorismo psicologico. Non starò qui a dibattere invece sul concetto di violenza, su chi la perpetra e su chi da essa si deve difendere e via dicendo: questo non per assumere atteggiamenti ambigui riguardo l’ utilizzo o meno di certi mezzi nella lotta di classe, ma perché reputo questa sede non adatta per affrontare un dibattito che è patrimonio del movimento antagonista al quale appartengo. Due parole in merito al processo alle forze di polizia. Si prova con il processo alle cosiddette forze dell’ordine a dare un senso di equità…i pubblici ministeri hanno voluto paragonare ad una guerra fra bande le violenze tra polizia e manifestanti: senza troppi giri di parole dico solo che io non mi sognerei mai di infierire vigliaccamente su persone ammanettate, inginocchiate, denudate, o in palese atteggiamento inoffensivo col preciso intento di umiliare nel corpo e nella mente… Sono ormai abituato a sentirmi paragonare a provocatore, infiltrato ecc ed è dura, ma essere paragonato ad un torturatore in divisa no… questa affermazione è a dir poco rivoltante! È degna di chi l’ha formulata. E poi allestire un processo a poliziotti e carabinieri, giusto per ricordare che siamo in democrazia significa ridurre il tutto ad un pugno di svitati violenti da una parte, e dall’altra a casi di eccessivo zelo nell’applicazione del codice. Questo, oltre ad essere sinonimo di miseria intellettuale, indica la debolezza delle ragioni per cui sprecarsi al fine di preservare l’attuale ordinamento sociale. Dal mio punto di vista processare la polizia parallelamente ai manifestanti significa investire le cosiddette forze dell’ordine di un ruolo troppo importante nella vicenda; significa togliere importanza ai gesti compiuti dalla gente che è scesa in strada per esprimere ciò che pensa di questa società, relegando tutti quanti nel proprio ruolo storico di vittime di un potere onnipotente. Carlo Giuliani, così come tanti altri miei compagni, ha perso la vita per aver espresso tutto ciò col coraggio e con la dignità che contraddistingue da sempre i non sottomessi a questo stato di cose e finché i rapporti tra le persone saranno regolati da organi esterni rappresentanti di una stretta minoranza sociale, non sarà l’ultimo. E siccome sono disilluso ed attribuisco il giusto significato al termine democrazia, l’idea che un rappresentante dell’ordine costituito venga processato per aver compiuto il proprio dovere mi fa sinceramente sorridere. Lo stato processa lo stato direbbe qualcuno a ragione. Sicuramente ci saranno delle condanne e non le vivrò di certo come segnale di indulgenza o di accanimento nei nostri confronti da parte della corte. Esse andranno valutate, in qualsiasi caso, come un attacco a tutti coloro che in un modo o nell’altro avranno sempre da mettere in gioco la propria esistenza al fine di stravolgere l’esistente nel migliore dei modi possibile.
Vincenzo Vecchi
PROCESSO SCRIPTA MANENT
Dichiarazioni al processo per l’op. “Scripta Manent”
Il 16 novembre, nell’aula bunker del carcere Le Vallette di Torino, si è tenuta la prima udienza del processo a carico di 29 compagn* accusat* di associazione sovversiva con finalità di terrorismo e altri reati. Sette di questi compagn* sono in carcere preventivo dal settembre 2016, nelle sezioni di alta sicurezza AS2.
Riportiamo qui alcune delle dichiarazioni rilasciate dai compagni e dalle compagne imputati/e presenti al processo.
Alfredo, che non era presente fisicamente in aula perché per lui e per altri 3 prigionieri/e era stata disposta la videoconferenza, ha letto la sua dichiarazione dal carcere di Ferrara dove è rinchiuso. Claudia e Stefano, imputati ma a piede libero, hanno letto la loro dichiarazione in aula, abbandonando il tribunale subito dopo la lettura dei testi.
Gioacchino ha fatto pervenire il suo scritto senza presentarsi in aula.
DICHIARAZIONE DI ALFREDO
Benevento 14 agosto 1878 – Torino 16 novembre 2017
Processo ai malfattori
“L’unione è solo un tuo strumento, è la spada con la quale accresci a acuisci la tua forza naturale; l’unione esiste grazie a te. La società, invece, reclama molto da te ed esiste anche senza di te; insomma, la società è sacra, l’unione è tua propria; la società ti utilizza, l’unione la utilizzi tu”
Stirner
“Signori, il tempo della vita è breve… se viviamo, viviamo per calpestare i re”
Shakespeare, Enrico IV
“Mi dolgo di ogni crimine che nella mia vita non ho commesso, mi dolgo di ogni desiderio che nella mia vita non ho soddisfatto”
Senna Hoy
Voglio essere il più chiaro possibile, che le mie parole suonino come un’ammissione di colpevolezza. Per quanto sia possibile appartenere ad uno strumento, ad una tecnica, con orgoglio e fierezza rivendico la mia appartenenza alla FAI-FRI. Con orgoglio e fierezza mi riconosco nell’intera sua storia. Ne faccio parte a pieno titolo ed il mio contributo porta la firma del “Nucleo Olga”. Se questa farsa si fosse limitata a me e Nicola oggi avrei taciuto. Ma avete coinvolto una parte significativa di tutti coloro che in questi anni ci hanno dato solidarietà, tra loro i miei affetti più cari. A questo punto non posso astenermi dal dire la mia, tacendo mi farei complice dell’infame tentativo da parte vostra di colpire nel mucchio di una parte importante del movimento anarchico. Compagne e compagni trascinati dietro le sbarre e processati non per quello che hanno fatto ma per quello che sono: delle anarchiche e degli anarchici. Processati e arrestati non per aver rivendicato, come ho fatto io, un’azione con l’acronimo FAI-FRI, ma per aver partecipato ad assemblee, scritto su giornali e blog, ancor più semplicemente aver dato solidarietà a dei compagni durante un processo. Non mi farò scudo di questi/e compagni/e. In un’epoca in cui le idee non contano, essere processati e arrestati per un’idea la dice lunga sulla forza dirompente che una certa visione dell’anarchia continua ad avere e molto dice anche sul guscio vuoto che è la democrazia e le cosiddette libertà democratiche. Avete le vostre ragioni, non lo nego, in fondo non esistono anarchici buoni, in ogni anarchico e anarchica cova il desiderio di scaraventarvi giù da quello scranno. Da parte mia nessun tentativo di spacciare la FAI-FRI per associazione ricreativa o club delle giovani marmotte. Chi ha fatto uso di questo strumento o come direste voi digiuni di anarchia “chi è della FAI-FRI”, lo rivendica a testa alta come i miei fratelli e sorelle arrestati in passato, come io stesso a Genova anni fa ed oggi in quest’aula. È la nostra storia che ve lo insegna, storia che stiamo pagando, mai martiri, mai arresi, con anni di galera e isolamento in mezzo mondo. Chi non fa parte di questa nostra storia trascinato in catene davanti a voi, tace per solidarietà, per affetto, per amore, per amicizia, sentimenti questi impensabili, incomprensibili per voi servitori dello stato. La vostra “giustizia” è sopraffazione del più forte sul più debole. Vi garantisco, in questo processo, che tra gli imputati vigliacchi e opportunisti non ne troverete. Il prezzo della dignità è incalcolabile ed i suoi doni sono disperati e costosi oltre ogni limite e immaginazione e vale sempre la pena pagare quel prezzo, ed io sono pronto a pagarlo in ogni momento. Per voi non dovrebbe avere alcuna importanza se sono stato realmente io a mettere quelle bombe. Perché mi sento comunque complice di quei fatti, come di tutte le azioni rivendicate FAI-FRI. Tanto più perché le azioni di cui mi accusate sono tutte in solidarietà di migranti e anarchici prigionieri e le condivido in pieno. Come non sentirmi complice quando quelle esplosioni sono state per me come bagliori di luce nell’oscurità. Per quanto stupido possa sembrarvi, per me esiste un prima e un dopo la FAI. Un prima in cui ero fanaticamente e stupidamente convinto che solo le azioni non rivendicate avessero un’utilità, una riproducibilità, convinto che l’azione distruttiva dovesse necessariamente parlare da sola e che ogni acronimo fosse lo sterco del demonio. Un dopo in cui, con la pistolettata ad Adinolfi, misi in discussione questi dogmi insurrezionalisti giungendo a concretizzare queste mie nuove convinzioni in un’azione. Poca cosa, direbbe qualcuno, e sarebbe vero se dietro quel semplice acronimo non ci fosse un metodo che potrebbe realmente, per noi anarchici della prassi, fare la differenza al di là e al di fuori di repressione, repressioni ed aule di tribunale. Per quanto limitato sia stato il mio contributo, per quanto sia arrivato in ritardo mi sento complice in tutto e per tutto dei fratelli e delle sorelle che hanno iniziato questo cammino. Chiunque siano, dovunque siano, spero non me ne vorranno se faccio mie le loro azioni, mi rappresentano. Poco importa se non li ho mai guardati negli occhi, ho letto le loro parole di fuoco, le ho condivise, approvo le loro azioni e questo mi basta, in me nessuna volontà di appropriazione, piuttosto una forte orgogliosa volontà di condivisione di responsabilità. Giudici, mi sarebbe piaciuto sputarvi in faccia (come feci a Genova) una mia responsabilità diretta nei fatti che mi imputate, ma non posso appropriarmi di meriti e onori che non sono i miei, sarebbe una forzatura troppo grossa. Dovrete e dovrò accontentarmi di quella che voi nel vostro linguaggio impregnato di autoritarismo definireste “responsabilità politica”. Non disperate, bravissimi come siete ad inventarvi prove granitiche, per quanto cervellotiche, ed a resuscitare stupefacenti DNA, per quanto inconsistenti, dall’oblio di archiviazioni passate, non avrete alcuna difficoltà a portare a casa un bel bottino di anni di galera. E poi, se proprio volete saperlo, una mia condanna ci sta tutta, fosse solo per la mia adesione alla FAI-FRI, adesione ad un metodo non ad un’organizzazione, per non parlare poi della mia ferma concreta volontà di distruggervi e di distruggere tutto quello che rappresentate. Avete colpito a caso negli affetti più cari, parentele, amicizie sparando a zero. Gli scrupoli morali non sono il vostro forte, avete ricattato, minacciato, usato l’allontanamento di bambini dai propri genitori come strumento di coercizione ed estorsione. Compagne e compagni che nulla c’entrano con la FAI-FRI trascinati davanti a voi con accuse e prove insulse. Uno dei motivi, non il principale, per il quale rivendicai la FAI-FRI fu quello di non esporre il movimento anarchico ad una facile criminalizzazione. Oggi mi ritrovo in aula a contrastare la vostra rappresaglia, il vostro meschino tentativo di mettere sul banco degli imputati “Croce Nera”, periodico storico del movimento anarchico che, con i suoi alti e bassi dagli anni sessanta svolge il suo ruolo di appoggio ai prigionieri di guerra anarchici. Nei vostri deliri fascistoidi tentate di far passare “Croce Nera” come organo di stampa della FAI-FRI. Non si erano spinti a tanto neanche nel 1969 in piena campagna anti-anarchica. All’epoca i vostri colleghi, una volta avuta la loro libbra di carne umana con l’uccisione del fondatore della “Croce Nera” italiana, Pinelli, si limitarono all’incriminazione di singoli compagni per fatti specifici; sappiamo poi tutti come andò a finire. Oggi che il sangue scarseggia voi non vi limitate alle accuse per azioni specifiche a quattro compagni e vi spingete oltre, fino a criminalizzare una fetta intera di movimento. Tutti coloro che hanno fatto parte della redazione di Croce Nera, che hanno scritto su di essa o che anche solo hanno assistito alle sue presentazioni pubbliche, nella vostra ottica inquisitoria fanno tutti parte della FAI-FRI. La mia orgogliosa partecipazione alla redazione di “Croce Nera” e di altri periodici anarchici non fa di questi giornali degli organi di stampa della FAI-FRI. La mia partecipazione è individuale, ogni anarchico è una monade, un’isola a parte, il suo contributo è sempre individuale. Mi avvalgo dello strumento FAI-FRI solo per fare la guerra. L’uso di questo strumento, l’adesione al metodo che ne consegue, non coinvolge tutta la mia vita di anarchico, non coinvolge in niente gli altri redattori dei giornali con i quali collaboro. Una caratteristica della mia anarchia è la multiformità delle pratiche messe in campo, tutte ben distinte. Io rispondo solo per me, ognuno risponde per sé stesso. Non mi interessa conoscere chi rivendica con l’acronimo FAI-FRI, con loro comunico solo attraverso le azioni e le parole che le seguono. Ritengo controproducente conoscerli personalmente e neanche li vado a cercare, tanto meno per farci un giornale insieme. La mia vita di anarchico, anche qui in prigione, è ben più complessa e variegata di un acronimo e di un metodo e lotterò fino allo stremo affinché il cordone ombelicale che mi lega al movimento anarchico non venga reciso dall’isolamento e dalle vostre galere. Ficcatevelo bene in testa, la FAI-FRI, senza nulla togliere alla controinformazione, non edita giornali e blog. Non necessita di spettatori o di tifosi o specialisti della controinformazione, non basta guardare a lei con simpatia per diventarne parte, bisogna sporcarsi le mani con le azioni, rischiare la propria vita, metterla in gioco, crederci veramente. Anche delle teste bacate dall’autoritarismo come le vostre dovrebbero averlo capito, della FAI-FRI fanno parte solo gli anonimi fratelli e sorelle che colpiscono usando quell’acronimo ed i prigionieri/e anarchici/e che ne rivendicano l’appartenenza, il resto sono generalizzazioni e strumentalizzazioni ad uso della repressione. Colgo ora l’occasione che con questo processo mi date per togliermi il bavaglio soffocante della censura e dire la mia su argomenti che mi stanno a cuore, nella speranza che le mie parole possano arrivare, oltre queste mura, ai miei fratelli e sorelle. La mia “comunità di appartenenza” è il movimento anarchico con tutte le sue sfaccettature e contraddizioni. Quel mondo ricco e variegato in cui ho vissuto gli ultimi trent’anni della mia vita, vita che non cambierei con nessun’altra. Ho scritto su giornali anarchici, continuo a scriverci, ho partecipato a manifestazioni, scontri, occupazioni, ho fatto azioni, ho praticato la violenza rivoluzionaria. La mia “comunità di riferimento” sono tutti miei fratelli e sorelle che usano il metodo FAI-FRI per comunicare, nel mio caso, senza conoscersi, senza organizzarsi, senza coordinarsi, senza cedere libertà alcuna. Non ho mai confuso i due piani, la FAI-FRI è semplicemente uno strumento, uno dei tanti a disposizione degli anarchici/e. Uno strumento unicamente per fare la guerra. Il movimento anarchico è il mio mondo, la mia “comunità di appartenenza”, il mare in cui nuoto. La mia “comunità di riferimento” sono gli individui, nuclei di affini, le organizzazioni informali (coordinamenti di più gruppi) che comunicano, senza contaminarsi, attraverso l’acronimo FAI-FRI parlandosi per mezzo delle rivendicazioni che seguono le azioni. Un metodo questo che dà anche a me anticivilizzatore, antiorganizzatore, individualista, nichilista la possibilità di unire le forze con altri individui anarchici, organizzazioni informali (coordinamenti di più gruppi), nuclei di affini senza cedere loro libertà, senza rinunciare alle mie personali convinzioni e tendenze. Mi definisco anticivilizzatore perché credo che il tempo a nostra disposizione sia limitatissimo prima che la tecnologia, prendendo coscienza di sé, domini definitivamente la razza umana. Mi definisco antiorganizzatore perché mi sento parte della tradizione antiorganizzatrice illegalista del movimento anarchico, credo nei rapporti fluidi, liberi tra anarchici/e, credo nel libero accordo, nella parola data. Mi definisco individualista perché per mia natura non potrei mai delegare potere e decisioni ad altri, mai potrei far parte di un’organizzazione informale o specifica che sia. Mi definisco nichilista perché ho rinunciato al sogno di una futura rivoluzione per la rivolta ora, subito. La rivolta è la mia rivoluzione e la vivo ogni qualvolta mi scontro con violenza con l’esistente. Credo che il nostro compito principale oggi sia quello di distruggere. Grazie alle “campagne di lotta” della FAI-FRI mi regalo la possibilità di potenziare, rendendo più incisiva, la mia azione. “Campagne di lotta” che devono necessariamente scaturire da azioni che chiamano altre azioni, non da appelli o assemblee pubbliche, tagliando così di netto meccanismi politici di autorevolezza di cui le assemblee di movimento sono piene. L’unica parola che conta è quella di chi colpisce concretamente. Il metodo assembleare, a parer mio, è un’arma spuntata per far la guerra, inevitabile e fruttuosa in altri ambiti. Aderendo con le mie forze alle “campagne di lotta” della FAI-FRI, nel mio caso da individualista senza far parte di alcuna organizzazione informale (coordinamento di più gruppi), usufruisco di una forza collettiva che è qualcosa di più e di diverso della semplice somma matematica delle singole forze sprigionate da singoli gruppi affini, individui e organizzazioni informali. Questa “sinergia” fa in modo che “il tutto”, la FAI-FRI, sia qualcosa di molto più della somma dei soggetti che la compongono. Tutto questo salvaguardando la propria autonomia individuale grazie alla mancanza totale di collegamento diretto, conoscenza, con i gruppi e organizzazioni informali e singoli anarchici che rivendicano con quell’acronimo. Ci si dà un acronimo in comune per dar modo agli individui, gruppi, organizzazioni informali di aderire e riconoscersi in un metodo che salvaguarda in maniera assoluta i propri progetti particolari; chi rivendica FAI-FRI aderisce a quel metodo. Niente di ideologico e politico, solo uno strumento (rivendicazione attraverso un acronimo) prodotto di un metodo (comunicazione tra individui, gruppi, organizzazioni informali attraverso le azioni) che ha l’obiettivo di rafforzare nel momento dell’azione senza omologare, appiattire. L’acronimo è importante, garantisce continuità, stabilità, costanza, crescita quantitativa, una storia riconoscibile, ma in realtà la vera forza, la reale svolta, consiste nel metodo semplice, lineare, orizzontale, assolutamente anarchico della comunicazione diretta attraverso le rivendicazioni senza intermediari, senza assemblee, senza conoscersi, senza esporsi eccessivamente alla repressione; comunica solo chi agisce, chi si mette in gioco con l’azione. È il metodo la vera innovazione. L’acronimo diventa controproducente se tracima oltre il compito per il quale è nato, cioè riconoscersi in quanto fratelli e sorelle che adottano un metodo. Tutto qui. La pratica è la nostra cartina di tornasole, è nella pratica che si testa l’efficacia di uno strumento. Bisogna prendere atto che l’esperienza FAI-FRI, in continua evoluzione, ci mette davanti a trasformazioni repentine, caotiche; non bisogna rimanerne spiazzati. L’immobilismo e la staticità rappresentano la morte, la nostra forza è l’esplorazione di nuove strade. Il futuro di quest’esperienza non è, certamente, in una maggiore strutturazione, ma nel tentativo, carico di prospettive, di collaborazione tra singoli anarchici, gruppi di affini, organizzazioni informali, senza mai contaminarsi a vicenda. Le istanze di coordinamento devono rimanere all’interno della singola organizzazione informale, tra singoli gruppi o nuclei che la compongono, senza tracimare all’esterno, senza coinvolgere le altre organizzazioni informali FAI-FRI e soprattutto i gruppi e i singoli anarchici FAI-FRI, che altrimenti vedrebbero minata alla base la propria autonomia, la propria libertà, il senso stesso del proprio agire al di fuori di organizzazioni e coordinamenti. Solo così se si creano dinamiche autoritarie all’interno di un gruppo, di un’organizzazione, rimarranno circoscritte lì dove sono nate, evitando il contagio. Non esiste un tutt’unico, non esiste un’organizzazione chiamata FAI-FRI, esistono individui, gruppi affini, organizzazioni informali tutte ben distinte che comunicano attraverso l’acronimo FAI-FRI, senza mai entrare in contatto tra di loro. È stato scritto e detto molto sulle dinamiche interne dei gruppi di affinità, sull’organizzazione informale e l’azione individuale. La comunicazione tra queste pratiche, al contrario, non è stata mai esplorata, mai presa in considerazione. La FAI-FRI è il tentativo di mettere in pratica questa comunicazione. Azioni individuali, gruppi di affinità, organizzazioni fanno parte tutti allo stesso titolo di quegli strumenti che gli anarchici storicamente si sono sempre dati. Ognuno di questi strumenti ha dei vantaggi e degli svantaggi. Il gruppo di affinità unisce la velocità operativa, dovuta alla grande conoscenza tra gli affini, ad una certa potenza, dovuta all’unione di più singoli. I suoi grandi pregi: libertà del singolo garantita e notevole resistenza alla repressione. Pregi dovuti all’esiguo numero degli affini ed al grande affetto ed amicizia che necessariamente li lega. L’organizzazione, nel nostro caso informale (coordinamento di più gruppi), garantisce una fortissima disponibilità di mezzi e forza, ma una vulnerabilità elevata dovuta alla necessaria coordinazione (conoscenza) tra i gruppi o nuclei; colpito uno si rischi l’effetto “domino”, cadono tutti. Dal mio punto di vista la libertà individuale si scontrerà per forza maggiore con i meccanismi decisionali collettivi (“regole” di funzionamento dell’organizzazione). Questo aspetto rappresenta una drastica riduzione di libertà e autonomia indigeribile per un anarchico individualista. L’azione individuale garantisce una velocità operativa elevata, un’imprevedibilità molto alta, una fortissima resistenza alla repressione e soprattutto una totale libertà; l’individuo non deve rendere conto a niente e a nessuno se non alla propria coscienza. Un grande difetto: la bassa potenzialità operativa, si hanno sicuramente meno mezzi e possibilità di portare avanti operazioni complesse (cosa che al contrario un’organizzazione informale, se c’è volontà e fermezza, può fare con una certa facilità). Sperimentare l’interazione tra modi di muoversi così radicalmente diversi: questa è l’innovazione, il nuovo che può spiazzare e renderci pericolosi. Nessuna ambigua mescolanza, gruppi, singoli, organizzazioni informali non devono mai entrare in contatto diretto. A ognuno il suo, gli ibridi ci indebolirebbero. Uniti più che da un acronimo, da un metodo. La FAI-FRI dà il modo di unire le forze senza snaturarsi a vicenda. Nessun moralismo o dogmatismo, ognuno si rapporta liberamente come vuole, probabilmente sarà il mescolarsi di tutto questo a fare la differenza. Nessun coordinamento al di fuori della singola organizzazione informale (perché il coordinamento include la conoscenza fisica tra tutti i gruppi e organizzazioni, rendendoli permeabili alla repressione), nessuna sovrastruttura omologante, egemonica, che schiacci singoli o gruppi affini. Chi sperimenta nel proprio agire l’organizzazione informale non deve imporre al di fuori di essa il proprio modo di muoversi, come i singoli individui d’azione ed i gruppi di affinità “solitari” non devono gridare al tradimento dell’idea se fratelli e sorelle agiscono in schiere compatte e organizzate. Naturalmente questo è solo il mio punto di vista e vale per quello che vale. Per finire in bellezza vi dirò che sul vostro codice penale piscio con spensieratezza e allegria. Poco importa cosa deciderete sul mio conto, il mio destino rimarrà saldamente nelle mie mani. Ho le spalle grosse, o almeno mi illudo di averne, e la vostra galera e il vostro isolamento non mi fanno paura, sono pronto a fronteggiare le vostre ritorsioni mai domato, mai arreso.
Lunga vita alla FAI-FRI
Lunga vita alle CCF
Morte allo stato!
Morte alla civilizzazione!
Viva l’Anarchia!!
Alfredo Cospito
DICHIARAZIONE DI CLAUDIA E STEFANO
Ci troviamo di fronte a voi per essere giudicati. Colpevoli o innocenti? Ma qual è l’accusa che viene mossa nei nostri confronti? Nelle migliaia di pagine che la procura ha prodotto si attraversano venti anni di storia della lotta anarchica in Italia e non solo, si parla di fatti specifici per dare un po’ di valore alle supposizioni ed alle congetture, ma in realtà tutta quella montagna di carta di cosa vuole convincervi? Vuole convincervi che siamo anarchici. Che non accettiamo passivamente il sistema che ci governa, l’inevitabilità del dominio dell’uomo sull’uomo e dell’uomo sulla natura. Vi chiede di condannare l’amore che unisce esseri umani che condividono l’inarrestabile desiderio di libertà, legati dall’affine disprezzo per l’autorità.
Se è per questo che ci troviamo qui mettiamo subito fine a questa farsa prima che cominci.
Siamo colpevoli.
Siamo colpevoli di essere coscienti che il regime democratico non è altro che la spietata supremazia dei più forti sui più deboli che si dà sostegno polverizzando particelle di potere per soddisfare l’ego di ogni essere umano educato alla ricerca del privilegio, nell’appiattimento delle attitudini individuali, cercando protezione nel consenso delle masse.
Siamo colpevoli di non accettare queste condizioni, di non voler partecipare alla distribuzione di quelle pastiglie di potere, di non voler vivere sul sangue e il sudore di chi subisce una condizione meno vantaggiosa della nostra.
Questo non significa che ci lasciamo confinare in un angolo devoti al sacrificio per vivere al fianco dei più deboli, noi viviamo per noi stessi, per soddisfare a pieno le nostre esigenze senza aspettare o chiedere il permesso, lottando contro tutto ciò che ce lo impedisce.
Non sogniamo una rivoluzione ma alimentiamo la rivolta continua contro ogni costrizione, forzando i nostri limiti e quelli che ci vengono imposti.
Qualche giorno fa nostro figlio stava studiando qualcosa che viene definito “educazione civica” e ripeteva a voce alta i princìpi della costituzione che garantiscono libertà di parola e di espressione ecc.
Pur avendolo consapevolmente buttato nel ventre della belva mettendolo a confronto con l’istruzione pubblica, affidandolo alla sua intelligenza e allo spirito critico che sarà capace di sviluppare, non ho potuto fare a meno di intervenire spiegandogli che questa è una menzogna, che le leggi sono dettate da chi le concepisce per mantenere il proprio potere e che non è vero che ognuno può esprimere la propria opinione, perché se questa lo ostacola verrà schiacciata, come sta accadendo a sua madre e suo padre.
Per questo motivo, perché non venga perpetrata questa menzogna, continueremo a lottare a testa alta affinché le future generazioni possano avere una lettura diversa della realtà e che non rimangano ostaggio di una verità interessata.
Abbiamo deciso di leggere questo documento per mettervi di fronte alla responsabilità di difendere l’ipocrisia della costituzione sulla quale avete giurato.
Vogliamo che vediate la mano del mostro che vi carezza il capo come fedeli cagnolini ogni volta che vi guardate allo specchio. Non vogliamo darvi la possibilità di nascondervi dietro al putrido e corrotto principio di giustizia che vi eleva ad inquisitori.
Il fatto che venga negato ai nostri compagni di presenziare fisicamente in aula, che venga così cancellato il principio di partecipazione alla difesa di cui la giurisprudenza che sostiene la fandonia democratica si fa garante, è l’ennesima dimostrazione di come sia fazioso l’utilizzo della legalità. Soprattutto per questo motivo non parteciperemo più a questa farsa, disertando le udienze ed affidando la difesa tecnica agli avvocati, puntando a far emergere quanto più possibile le contraddizioni che sostengono questo sistema, senza giustificare il nostro essere e senza rivendicare briciole di democrazia. Così abbiamo deciso di combattere chiusi nei confini della vostra legge. Fuori da questi confini siamo sempre noi a decidere come e quando combattere.
Il buon PM Sparagna, paladino della lotta contro le mafie o cane che morde la mano del padrone che gli dà un tozzo di pane, ha pensato di poter affrontare gli anarchici come i mafiosi senza rendersi conto che quello che ci distingue è qualcosa che va ben oltre la sua misera concezione di esistenza e solidarietà. Potrà pur tentare di utilizzare vigliaccamente il vissuto di ognuno di noi per cercare delle falle in cui insinuarsi ma non ci riuscirà mai.
Onore e amore sconfinato alle nostre sorelle e ai nostri fratelli ostaggio dello stato.
Paladini della giustizia:
quello che è nostro non sarà mai vostro, nemmeno dopo anni in cui continuerete a spiare e studiare le nostre vite.
Colpevoli di amare senza condizioni
Colpevoli di odiare con la piena cognizione
Claudia e Stefano
DICHIARAZIONE DI GIOACCHINO
Oggi, così come per tutte le future udienze di questo processo che mi vede imputato insieme ai miei fratelli, sorelle ma soprattutto compagni anarchici, non vi donerò la soddisfazione di vedere la mia faccia in un’aula di questo tribunale.
Non ho mai presenziato in passato nelle aule dove mi si preparava il funerale e non lo farò ora!
Sono anarchico, individualista, antiautoritario e soprattutto sono per l’insurrezione, che ha come uno dei primari obiettivi quello di distruggere luoghi di morte come questo e le carceri.
Non farò parte dello spettacolino messo su da un magistrato che, preso dai crampi della fame, si è messo a libro paga di uno Stato che non riconosco, essendo io un cittadino del mondo in continua evasione dalle sue frontiere; non sarò là ad ascoltare i suoi deliri o attendere la fine per ascoltare qualcuno giudicarmi “colpevole o innocente”.
Per qualsiasi Stato autoritario io sarò sempre “colpevole” perché nella società che voglio non ci sarà spazio per voi, i vostri palazzi e le vostre istituzioni.
Non ho nessuna voglia di sentirmi raccontare la storia dell’anarchismo da un servo dello Stato che ha il fine di sottolineare l’esistenza di “buoni” e di “cattivi”, giusto perché la sua democrazia glielo impone.
Oggi chiede di condannare noi, domani starà a corto di stipendio di nuovo e chiederà di condannare quelli che oggi ritiene i “buoni”.
Ma la verità è una: un anarchico non potrà mai essere “buono” per uno Stato autoritario.
Altrimenti devo pensare che negli anni sprecati per le vostre fottute lauree in giurisprudenza non avete mai imparato i significati dei termini che utilizzate.
In un mondo dove la morale dei suoi abitanti è formata da una parte dalle religioni e dall’altra dagli sciacalli dell’“informazione” pagati dalla magistratura o da questure e caserme, ho ritenuto opportuno ricavarmi uno spazio nel web per la “controinformazione”.
L’ho fatto cosciente di utilizzare un vostro mezzo.
RadioAzione, di cui sono l’unico fondatore e curatore, vi ha sbattuto in faccia quello che non volevate mai sentirvi dire.
Lasciare democraticamente lo spazio di cui usufruire che funzionasse da esca e a cui abboccassero i pesci, era la vostra intenzione ma io mi sono seduto in quello spazio e ho ribaltato il vostro “bel” tavolo.
Se proprio vi dava noia il sito di RadioAzione potevate mettere una delle vostre “belle” censure ma non lo avete fatto; forse perché qualcuno doveva scrivere pagine e pagine di atti giudiziari per guadagnarsi il tozzo di pane per qualche anno?
Oppure perché per sei anni siete stati là ad ascoltare o leggere i miei pensieri attraverso un fottutissimo key-logger a cui avete dato anche un nome, “Agente Elena”, che con le sue fatture gonfiate ha dato da mangiare a qualche altro servo dello Stato?
Ma questo è un altro discorso… vostre furbate che a me non interessa approfondire…
Per concludere, perché per i miei gusti vi ho concesso già troppo spazio:
Rivendico il progetto RadioAzione come mio, e solo mio.
Progetto su cui, da quando è nato a quando ho deciso di chiuderlo, ho sempre pubblicato le mie “riflessioni” personali e individuali o quelli di altri compagni nel mondo che ritenevo affini.
Ho reso tutto ciò leggibile attraverso il sito ed ascoltabile attraverso la radio; con ciò non sto dicendo che ho fatto le cose “alla luce del sole” ma perché ero cosciente che, oltre ai compagni, ad ascoltare e a leggere c’eravate anche voi e quando non ne potevate più di sentirvele dire siete arrivati perfino al sabotaggio della mia linea telefonica tagliandone i cavi.
Non sono questi giochetti da frustrati che mi irritano ma la vostra miserabile esistenza!
Negli anni ci avete provato in tutti i modi a fermarmi: carcere, controlli a tappeto ai domiciliari, minacce, servizi segreti, infiltrati, etc…
Sono sempre qui!
Mai un passo indietro!
Al contrario di voi, alla mia esistenza ho dato un senso e un fine: la distruzione totale dello Stato!
Ritengo il progetto Croce Nera Anarchica un progetto valido portato avanti da compagni a cui mi sento affine, e non mi sono fatto alcun problema ad organizzare a Napoli la presentazione del loro giornale e tanto meno a collaborare attraverso le traduzioni o all’aggiornamento del sito per qualche tempo.
Non sarà lo spauracchio inutile di questo processo a farmi tacere, a convincermi a non dare Solidarietà, Complicità e appoggio economico ai compagni, fratelli e sorelle, che oggi mi private di avere accanto perché sequestrati nei vostri lager e in quelli di tutto il mondo.
Non sarà lo spauracchio dei vostri lager a farmi fare il passo di un millimetro indietro e di
cancellarmi la convinzione, che anno dopo anno cresce sempre di più in me, di essere totale nemico vostro, di questo vostro fetido e opulente esistente e di tutto lo Stato – Capitale!
Per l’anarchia, per l’insurrezione
Gioacchino Somma
COMUNICATO IN SOLIDARIETÀ APPARSO A LECCO
Scripta Manent…e quindi?!
Poiché i concetti di innocenza e colpevolezza non ci appartengono, non abbiamo intenzione di includerli nella nostra analisi di lotta, né vogliamo preoccuparci della fondatezza delle accuse della questura o del coinvolgimento de* compagn* arrestat* nelle azioni contestate loro.
Desideriamo invece proporre alcuni spunti che speriamo possano stimolare pensieri e muovere ad azioni.
Come sempre, davanti alle azioni dirette distruttive, vogliamo rimarcare quanto sia importante l’agire.
Di giorno partecipiamo a concerti, assemblee, benefit vari, organizziamo lotte, cerchiamo di diffondere il germe dell’insurrezione attraverso la parola, gli scritti, i manifesti… Alla luce del sole scegliamo gli obiettivi, cerchiamo affinità, sviluppiamo rapporti umani.
Di notte ciascuno mette a soqquadro l’esistente come meglio crede attaccando direttamente il dominio. Col favore delle tenebre i bersagli si vedono più chiaramente, gli affini si organizzano e agiscono.
Questo è il bello dell’agire anarchico: pratiche che si incrociano e si rafforzano!
Eh sì, siamo sovversivi! L’azione diretta è un momento imprescindibile che concretizza pensieri e discorsi, sempre fondamentali ma da soli incapaci di intaccare lo stato di cose.
La pratica conflittuale è il comune denominatore di ogni lotta.
Che si attacchi con la parola o con i fatti, la repressione colpisce chi
porta avanti queste pratiche; è fisiologico che gli stati si difendano da chi li vorrebbe distrutti.
Infatti i/le compagn* arrestat* con quest’ennesima operazione repressiva sono stat* colpit* anche perché diffondono la questione dell’azione diretta.
Il nostro supporto e la nostra complicità vanno a loro e a chiunque scelga di mettersi in gioco cercando di essere quel bastone che s’infila negli ingranaggi della “megamacchina”, cosciente di essere esposto ad ogni sorta di forma repressiva, ma non per questo disposto alla resa.
Sarebbe auspicabile riuscire a supportare le azioni appena se ne viene a conoscenza, divulgandole e contestualizzandole nei percorsi di lotta che, alla luce del sole, ciascuno porta avanti; e non, come troppo spesso accade, quando qualcun* viene arrestat*.
Su questo c’è ancora molta strada da fare, il primo passo è non lasciare soli i/le compagn* incarcerat*, né di giorno né di notte.
Anarchici e anarchiche del lecchese e dintorni
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Scritto di Gianluca
Da prigioniero non smetto di sognare né d’immaginare un mondo libero dalla violenza autoritaria, e dai binomi oppressi-oppressori, sfruttati-sfruttatori. Libero da freni morali e sociali regolatori-inibitori di appetiti e delimitatori di orizzonti. Un mondo libero da ogni gabbia… …vergogna dell’umanità. Un mondo dove l’umana arroganza venga messa da parte per una simbiotica ed empatica coesistenza con i viventi tutti, nel rispetto dei naturali equilibri e dove la ricerca della libertà individuale sia l’unico percorso da tracciare per una reale e collettiva autodeterminazione.” [da una lettera di Adriano] Da settembre 2013 due anarchici di Albano Laziale e Frascati (Roma) si trovano rinchiusi nelle sezioni di alta sicurezza dei carceri di Ferrara ed Alessandria, insieme ad altri prigionieri anarchici e rivoluzionari. L’accusa di associazione sovversiva con finalità di terrorismo, che li vedrà andare a processo il prossimo 26 maggio, fa riferimento a 13 attacchi incendiari e sabotaggi contro diverse banche, una sede dell’ENEL, un distributore di benzina ENI, il cantiere di una discarica e altre aziende responsabili di devastazione ecologica e sfruttamento animale. In una lettera pubblicata a gennaio 2014 sul giornale anarchico La Miccia, Gianluca si assume la responsabilità di alcune delle azioni di cui è accusato: “Le azioni a cui si riferiscono nello specifico, che non eseguono nessun “programma”, sono state messe in pratica da me e dichiarate con comunicati FRONTE RIVOLUZIONARIO INTERNAZIONALE – FEDERAZIONE ANARCHICA INFORMALE / Individualità Sovversive Anticivilizzazione e sanno bene, grazie alle loro amate telecamere, che sono state eseguite da una sola persona, cioè io, in risposta alla devastazione, per logiche di profitto, del Pianeta e delle terre in cui vivo e in Solidarietà con i ribelli in conflitto con l’esistente. Il GPS, e altre diavolerie, che gentilmente i militari hanno installato su un’auto da me in uso da un paio di anni, mi collegherebbero, in modo indiziario o più, ad altre azioni dirette e sabotaggi. (…) Per non intaccare la mia integrità, il coraggio e il sacrificio non mi piego al “colpevole-innocente”, è veramente troppo. Che siano trenta o cento azioni poco importa, vorrà dire che in Italia sono mille e nel mondo diecimila! Comunque è ridicolo e banalmente sminuitivo discuterne dei fatti, sarebbe come annullare la visione reale di conflitto e Resistenza, e riconoscere la logica democratica del “gioco finito male” o dei buoni contro cattivi.” Nei confronti di Gianluca e Adriano è stata scarsa la solidarietà espressa fino ad ora da parte del movimento anarchico, forse perchè non si tratta di compagni già conosciuti ai più o attivi nelle lotte sociali che vanno per la maggiore. Questo dovrebbe farci riflettere, poiché il fatto che degli anarchici decidano di vivere e mettere in pratica le proprie idee secondo percorsi individuali o al di fuori di una logica di “movimento” non significa che la loro tensione sia meno forte o che i nostri sguardi non siano puntati verso gli stessi orizzonti. Dagli scritti e dai testi che Gianluca e Adriano hanno fatto uscire dalle loro celle, riconosciamo degli spiriti affini, refrattari ad ogni autorità, e in guerra contro la mega-macchina della civilizzazione, quell’insieme di apparati tecnologici e politici responsabili dell’addomesticamento e dello sfruttamento di esseri umani e animali, nonché della devastazione del pianeta. Tra le righe delle loro lettere traspaiono la determinazione, il coraggio e la sensibilità di due compagni che, nonostante la privazione della libertà a cui sono sottoposti, non hanno alcuna intenzione di abbassare la testa, ma che anzi continuano a testa alta a rivendicare le loro idee e la loro lotta per la liberazione totale, contro la società tecnologica alienata e contro ogni forma di dominio. Da più di sei mesi sono rinchiusi lontano dai loro affetti e, come animali in cattività, privati della possibilità di sentire il sole sulla pelle, l’erba sotto i piedi, il vento sul viso, l’arrivo della primavera. Come se non bastasse, burocrati senza volto rappresentanti del potere hanno deciso di privarli anche della possibilità di sentire il calore di persone solidali al loro processo, visto che nei loro confronti è stato predisposto il processo per videoconferenza. Resteranno quindi rinchiusi nelle loro celle mentre p.m. e giudici, a centinaia di chilometri di distanza, decideranno se e quanti anni dovranno restare ancora tra quelle mura, comunicandoglielo attraverso degli schermi. La tecnologia ancora una volta conferma il suo essere al servizio completo del potere, di chi non si fa scrupoli a utilizzare qualunque mezzo per cercare di schiacciare la ribellione, la solidarietà tra affini, la personalità stessa di chi è anarchico e quindi ostile al loro sistema di morte… senza peraltro riuscirci, scatenando anzi una rabbia ancora più grande. E’ ora di portare avanti la lotta, anche per Gianluca e Adriano. “Hanno trasformato questo Mondo in una torta da spartirsi tra risorse energetiche e frontiere di Stato. Ci negano ogni giorno una Vita che valga la pena di essere vissuta. Ma è ad ogni attacco e azione diretta che ce la riprendiamo e ne viviamo a pieno forza e Amore. Farò tutto il possibile, anche l’impossibile dei sogni, con ogni mezzo necessario. Sarà una Resistenza e lotta all’ultimo respiro ovunque un vivente sarà rinchiuso, ovunque ci sarà autorità o un mostro di nocività del progresso. Questa non è una promessa da mantenere, la mia è una dichiarazione di guerra.
PER L’ANARCHIA SELVAGGIA” [da una lettera di Gianluca]
sul carcere
Perché siamo contro le carceri, tutte le carceri?
Diciamo cose semplici, perché siamo spiriti semplici.
I pensieri, i desideri, i sogni che cerchiamo di esprimere appartengono all’umanità fin dall’alba del suo apparire. Uno stuolo infinito di legislatori, politici, esperti, intellettuali e altri sostenitori di idee autorizzate hanno complicato ad arte le domande, facendo sentire sciocchi e inferiori tante donne e tanti uomini che si sono sempre riferiti all’unico libro in cui si può trovare qualche risposta: quello dell’esperienza vissuta. Ci dicono che il carcere è un luogo necessario per punire coloro che trasgrediscono le regole della società. Ora, il concetto di “regola” presuppone che alla base di questa società ci sia un libero accordo, un insieme di norme volontariamente condivise dagli individui che la compongono. Ma è veramente così? I governi rappresentano davvero la volontà dei governati? Il povero acconsente di buon grado che il ricco s’ingrassi sul suo lavoro? Il ladro ruberebbe anche se avesse ereditato una fabbrica dal padre o se potesse vivere di rendita?
In realtà, per come funziona questa società, possiamo solo decidere come comportarci di fronte a leggi che altri hanno stabilito per noi e che un governo ha imposto all’immensa maggioranza delle donne e degli uomini. Ancor prima di chiedersi, allora, se è giusto o meno punire con il carcere chi trasgredisce le regole, bisogna chiedersi: chi decide – e come – le regole di questa società? Ci dicono che il carcere ci protegge dalla violenza. Ma è così?
Come mai le violenze peggiori – pensiamo alle guerre o alla fame imposta a milioni di persone – sono perfettamente legali? Perché si finisce in carcere se si uccide per gelosia ma si fa carriera o si diventa addirittura “eroi” se si bombarda una popolazione intera?
Il carcere punisce solo la violenza che dà fastidio allo Stato e ai ricchi, oppure quella che fa comodo presentare come abominevole (ad esempio gli stupri o certi delitti particolarmente efferati). Ma la violenza strutturale della società è quotidianamente protetta dal carcere. Quante sono le imprese che violano quotidianamente le leggi? Quanti sono i padroni che finiscono in galera? Quanto ai cosiddetti crimini abominevoli, non vi sembra indicativo che chi batte moneta falsa sia punito molto più pesantemente di chi commette uno stupro? Ciò non appaia strano: la legge deve difendere la proprietà, non il benessere delle persone. Ci dicono che la legge è uguale per tutti. Eppure in carcere ci sono quasi interamente donne e uomini con un basso titolo di studio, immigrati o figli di operai, incarcerati per lo più per reati contro il patrimonio, cioè per azioni profondamente legate alla società in cui viviamo, alla necessità che la muove da mane a sera: quella di trovare dei soldi. Senza contare che molti prigionieri sarebbero fuori (o a beneficiare delle cosiddette pene alternative) se avessero anche semplicemente i soldi per pagarsi un buon avvocato.
Ci dicono che il carcere aiuta a riscattarsi e a reinserirsi nella società.
Ma la maggior parte dei detenuti è composta da recidivi, dal momento che uscendo trovano le stesse condizioni, o peggio, di quando erano entrati.
Inoltre, se c’è un modo per impedire che un individuo rifletta sulle proprie azioni, è quello di sottoporre queste ultime ad una contabilità penale degna di una fiera: tot reati, tot anni. Quale che sia il crimine commesso, finito di scontare la pena (di “pagare il proprio debito”), perché non dovrebbe sentirsi a posto? Se invece è convinto di quello che ha fatto (se è un ribelle o un ladro cosciente), coverà solo nuovo odio nei confronti di una società che, pur essendo molto più criminale di lui, lo ha fatto rinchiudere a chiave. Cosa c’è di edificante nel rimanere separati per anni dai propri simili senza fare nulla di appassionante, condannati al trascorrere del tempo, educati a fingere con l’assistente sociale o con lo psicologo, abituati a sottomettersi sempre al superiore? Infine chiediamoci: questa società è così virtuosa, dispensatrice di valori così elevati e di relazioni così egualitarie da raccomandare di integrarsi al suo interno? Ci dicono che, se non riscatta, il carcere almeno spaventa.
E allora perché i detenuti sono sempre di più? Perché anche qui da noi si fa largo la tendenza a criminalizzare sempre più comportamenti? Si tratta, evidentemente, di un vero e proprio programma sociale: togliere i poveri dalle strade, investendo al contempo nel grosso affare della detenzione (quante sono le ditte che si arricchiscono con gli appalti di costruzione, con la manutenzione, con le forniture, ecc.?). Negli Stati Uniti, faro della civiltà penale, benché i crimini siano in diminuzione, ci sono ormai più prigionieri che contadini. È questa la strada che vogliamo percorrere?
Siamo contro il carcere perché esso è nato e si è sviluppato per difendere i privilegi dei ricchi e il potere dello Stato.
Siamo contro il carcere perché una società non più basata sul denaro e sul profitto, bensì sulla libertà e sulla solidarietà, non ne avrebbe bisogno.
Siamo contro il carcere perché vogliamo un mondo in cui le regole vengano davvero decise in comune.
Siamo contro il carcere perché anche il crimine più efferato ci dice qualcosa di noi, delle nostre paure, delle nostre debolezze, e non serve a nulla tenerlo nascosto dietro le mura.
Siamo contro il carcere perché i più grandi criminali sono quelli che ne detengono le chiavi.
Siamo contro il carcere perché nulla di buono cresce sulla coercizione e sulla sottomissione.
Siamo contro il carcere perché vogliamo trasformare radicalmente questa società (e quindi trasgredirne le leggi), non integrarci pacificamente nelle sue città, nelle sue fabbriche, nelle sue caserme, nei suoi supermercati.
Siamo contro il carcere perché il rumore della chiave nella toppa della cella è una tortura quotidiana, l’isolamento un abominio, la fine del colloquio una sofferenza, il Tempo recluso una clessidra che uccide lentamente.
Siamo contro il carcere perché quello dei secondini è sempre un corpo chiuso, pronto a proteggere ogni abuso e ogni violenza, disumanizzato dall’abitudine all’obbedienza e alla delazione.
Siamo contro il carcere perché ci ha strappato troppi giorni, mesi o anni, oppure troppi amici, sconosciuti o compagni.
Siamo contro il carcere perché la gente che abbiamo incontrato dentro non è né migliore né peggiore di quella che incrocia la nostra esistenza fuori. (Spesso, a pensarci bene, migliore).
Siamo contro il carcere perché la notizia di un’evasione ci scalda il cuore più dal primo giorno di primavera.
Siamo contro il carcere perché a guardarlo dal buco della serratura il mondo sembra popolato solo da esseri perfidi o sospetti.
Siamo contro il carcere perché il senso del giusto non lo si troverà mai in qualche codice.
Siamo contro il carcere perché una società che ha bisogno di rinchiudere e umiliare è essa stessa un carcere.